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TikTok, l’Europa e il silenzio cinese

 TikTok è tornata nel mirino delle autorità europee, e a questo punto non è più una notizia sorprendente, ma un tassello in un mosaico sempre più chiaro. L’Irlanda ha aperto una nuova indagine formale per chiarire se i dati degli utenti europei siano stati accessibili dalla Cina, nonostante le rassicurazioni ufficiali e i miliardi investiti nel cosiddetto Project Clover, l’infrastruttura di data center pensata per convincerci che tutto resti entro i confini europei. Quello che mi inquieta, più di tutto, è che non stiamo parlando di ipotesi, ma di fatti già ammessi: TikTok ha riconosciuto che l’accesso ai dati europei da parte di personale in Cina è effettivamente avvenuto. Eppure continuiamo a usare quell’app, continuiamo a scorrere video, a regalare dati, espressioni facciali, movimenti, abitudini. È una forma di rassegnazione dolce, mascherata da intrattenimento.

Da persona che ha un minimo di rispetto per la coerenza tra ciò che si dichiara e ciò che si fa, trovo difficile restare indifferente. I dati personali non sono una moneta simbolica, ma la nostra estensione digitale nel mondo, e sapere che siano passati, anche solo per un momento, sotto giurisdizioni che non rispondono al nostro sistema legale, mi infastidisce. In particolare quando il Paese in questione è la Cina, che non ha nulla a che vedere con la nostra idea di trasparenza, opposizione democratica, o tutela dell’individuo. Anzi, la Cina osserva tutto, accumula, silenziosa, metodica. E quando finalmente lo fa sapere, lo fa alle sue condizioni. Non urla mai, non minaccia a caso, non sbatte i pugni sul tavolo: semplicemente agisce, prepara, costruisce. Anche il silenzio è potere.

Tecnologicamente parlando, quello che succede è piuttosto semplice e, proprio per questo, spaventoso: i dati degli utenti europei dovrebbero restare nel perimetro europeo, secondo il GDPR. Ma TikTok ha ammesso che certi dati — forse temporaneamente, forse in modo controllato — sono stati trattati anche in Cina. Il problema non è solo dove i dati si trovano fisicamente, ma a chi può accedervi da remoto. La Cina ha leggi sulla cybersicurezza e sull’intelligence che, in sintesi, obbligano le aziende a collaborare con lo Stato. Nessuna clausola contrattuale, nessun data center in Irlanda o in Norvegia può cambiare questo fatto. Ecco perché l’argomento non è tecnico, è geopolitico. È il vecchio scontro tra blocchi che si ripresenta nel mondo digitale, con la differenza che oggi ci entriamo noi, col nostro volto e i nostri like.

Mi rendo conto che a molti questo discorso potrà sembrare paranoico, e per certi versi vorrei anche io considerarlo esagerato. Ma la verità è che il confine tra l’apparente innocenza di un algoritmo di intrattenimento e la raccolta sistematica di dati comportamentali è labile. TikTok conosce il tuo tempo di permanenza su un contenuto, la tua espressione, la tua inclinazione alla noia o alla curiosità, la tua voce, la tua posizione, persino l’inerzia del tuo pollice. Nessuna azienda raccoglie così tanti dati psicometrici. Se questi dati possono essere visionati, anche solo per errore, da operatori in una nazione che non risponde al nostro ordinamento e alla nostra idea di diritto, allora abbiamo un problema. Grave. Ma lo nascondiamo, lo diluiamo nei balletti e nelle challenge, nei trend e nei filtri.

Questa nuova indagine irlandese potrebbe finire come tante altre: con una multa salata e la promessa di fare meglio. Ma se davvero vogliamo parlare di sovranità digitale, allora forse dobbiamo iniziare a dire che non basta multare, non basta vietare a parole. Bisogna anche che qualcuno abbia il coraggio di staccare la spina, almeno finché le regole non sono rispettate davvero. Sennò è solo un gioco di facciata.

Io, personalmente, la Cina non la vedo come un nemico urlante. Ma è proprio questo a spaventarmi. Non fa rumore, non cerca consensi, non gioca a carte scoperte. Ma intanto accumula, osserva, progetta. E noi intanto scrolliamo, scrolliamo, scrolliamo.

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