Il Parlamento italiano sta discutendo un disegno di legge promosso da Nino Minardo e sostenuto dal ministro della Difesa Guido Crosetto che potrebbe ridisegnare in profondità il ruolo delle Forze armate nel cyberspazio. L’idea di fondo è quella di legittimare, anche in tempo di pace, operazioni cibernetiche sotto l’egida della Difesa, aprendo così la strada a un corpo militare specializzato in sicurezza digitale, con la possibilità di impiegare persino esperti esterni, hacker professionisti che verrebbero inseriti in attività di difesa all’interno di un quadro istituzionale formalizzato e soggetto a procedure di autorizzazione.
Secondo i promotori, l’Italia non può più permettersi un approccio frammentato. Gli attacchi informatici sono cresciuti in maniera allarmante, con un aumento del 53% solo nei primi sei mesi del 2025 e oltre millecinquecento incidenti registrati, di cui centinaia con impatti concreti sulle infrastrutture e sui servizi critici. Di fronte a questa escalation, il DDL punta a rafforzare la resilienza nazionale centralizzando competenze, strumenti e risorse, e introducendo percorsi formativi mirati. L’istituzione del Polo formativo Cyber della Difesa e l’inserimento di moduli di cybersecurity nelle scuole militari dovrebbero contribuire a creare nuove generazioni di professionisti capaci di operare in uno scenario che ormai è diventato il quinto dominio strategico, accanto a terra, mare, aria e spazio.
Non mancano però i timori. L’immagine evocata da alcuni giornali, che parlano di “hacker con licenza governativa”, riflette il rischio di una militarizzazione eccessiva del cyberspazio. La linea di confine tra difesa e attacco potrebbe diventare sfumata, soprattutto se le Forze armate ottenessero margini operativi che finora erano prerogativa esclusiva dei servizi di intelligence. La questione della trasparenza e del controllo democratico resta cruciale: il testo prevede relazioni periodiche al Parlamento e al Copasir, ma resta da chiarire come verranno definiti i limiti delle operazioni, quali saranno le procedure di autorizzazione e fino a che punto gli “esperti esterni” potranno operare senza creare zone d’ombra.
Il disegno di legge porta con sé anche implicazioni di diritto internazionale. Operazioni cyber che travalichino i confini nazionali rischiano di toccare infrastrutture di altri Stati, sollevando problemi di sovranità e possibili ritorsioni. Inoltre, la difficoltà di reperire hacker di alto livello in un mercato del lavoro già competitivo apre interrogativi su come lo Stato intenda attrarre, formare e trattenere queste figure senza cedere a dinamiche poco trasparenti.
La sfida, in fondo, è tutta qui: trovare un equilibrio tra l’urgenza di proteggere il Paese da un’ondata crescente di attacchi e la necessità di preservare trasparenza, legalità e proporzionalità nelle azioni di difesa digitale. Il DDL “Difesa & Cyber” segna un cambio di passo, ma il modo in cui sarà implementato determinerà se si tratterà di un rafforzamento democratico delle capacità nazionali o di un precedente che apre scenari più ambigui e rischiosi.
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