Sai, quando ho letto quella notizia l’altro giorno, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata: ma davvero il cartello di Sinaloa ha hackerato un agente dell’FBI? Non è roba da film, eppure pare che sia successo sul serio.
A quanto emerge da un documento ufficiale del Dipartimento di Giustizia americano, reso pubblico solo di recente, nel 2018 un hacker legato ai narcos messicani è riuscito a entrare in possesso dei dati del telefono di un agente dell’FBI assegnato all’ambasciata americana a Città del Messico. La notizia non era mai uscita prima d’ora. È riemersa adesso, nel 2025, grazie al procedimento giudiziario contro il responsabile, arrestato e processato negli Stati Uniti.
Non stiamo parlando di un cyberattacco ai server federali, ma di qualcosa di molto più diretto e, paradossalmente, più “banale”: la sorveglianza tecnica di un telefono personale.
Con i registri delle chiamate, la geolocalizzazione attiva e un uso strategico delle telecamere cittadine, l’hacker è riuscito a tracciare movimenti e incontri dell’agente. In questo modo, il cartello ha potuto identificare i suoi informatori, e – stando agli atti – usarli come bersagli. Alcuni sono stati intimiditi. Altri, probabilmente, eliminati.
Non ci sono comunicati ufficiali da parte dell’FBI, ma le fonti giornalistiche internazionali che hanno riportato i dettagli sono tra le più autorevoli: Reuters, El País, The Sun. E il documento giudiziario del DOJ, a cui fanno riferimento, è accessibile e verificabile.
Il punto, per me, non è tanto la notizia in sé – per quanto enorme – ma il contesto che disegna. Per anni abbiamo pensato che la sorveglianza urbana, i big data, la geolocalizzazione in tempo reale fossero strumenti in mano solo agli Stati. O al massimo ai colossi tech. Invece ci sono anche gruppi criminali capaci di usare tutto questo. Non con l’hacking alla Mr. Robot, ma sfruttando la normalità: un telefono con GPS attivo, un sistema di telecamere pubbliche, e un algoritmo di incrocio dati.
A quel punto, sei sotto controllo. E non conta se indossi un distintivo.
Come appassionato di sicurezza informatica, ma anche solo come cittadino, quello che mi ha colpito è quanto poco basti per rendere vulnerabile chiunque. E quanto il confine tra “sorveglianza” e “caccia all’uomo” possa assottigliarsi se finisce nelle mani sbagliate. Non si tratta più solo di proteggere reti o server, ma di proteggere la mobilità, i movimenti, le abitudini. E soprattutto le persone. Questa storia mi ha fatto riflettere su una cosa: la nostra esposizione digitale è una debolezza molto più grande di quanto vogliamo ammettere. Anche se lavori per l’FBI. Anche se pensi di essere al sicuro. E allora, se lo possono fare a loro, figurati a noi.
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