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Stallman e l’illusione dell’intelligenza artificiale

Ho appena finito di guardare un intervento di Richard Stallman in cui parla di OpenAI e dell’intelligenza artificiale. Il titolo è già tutto un programma: “L’AI di OpenAI non è AI”. E come spesso succede quando ascolto Stallman, ho avuto un mix di emozione e lucidità. Perché da una parte sono totalmente d’accordo con quello che dice — e non solo su questo — dall’altra riconosco quanto sia difficile seguirlo fino in fondo, specialmente nel mondo pratico e imperfetto in cui ci muoviamo ogni giorno.

Il cuore del suo discorso è semplice, ma denso: quello che oggi chiamiamo “AI” non è affatto intelligenza. Stallman spiega che il termine stesso è fuorviante, perché attribuisce una forma di coscienza o ragionamento a dei sistemi che invece non capiscono nulla. Non fanno altro che generare parole basandosi sulla probabilità che una parola segua l’altra. Non c’è comprensione, né intenzione, né conoscenza del significato. Dice, testualmente: “These systems don’t understand anything. They just imitate patterns they find in texts.”

Fa un esempio chiarissimo: se chiedi a questi modelli qualcosa su un argomento tecnico o etico, potrebbero darti una risposta apparentemente sensata, ma basata su un collage di testi prelevati da internet. Nessuna valutazione critica, nessuna verifica dei fatti, nessuna capacità di distinguere vero da falso. E qui arriva la critica più tagliente: "Calling it intelligence is misleading, and it misleads people into thinking these systems know what they are doing." Ed è proprio questo, secondo lui, che rappresenta un pericolo culturale e politico.

Un altro punto centrale del discorso riguarda la proprietà del software. Stallman sottolinea come OpenAI e molte altre aziende stiano centralizzando il potere di questi sistemi, nascondendo il codice, limitando l’accesso, vincolando l’uso attraverso contratti capestro e licenze proprietarie. E, ovviamente, qui torna la sua battaglia storica: il software libero. Senza la libertà di studiare, modificare e condividere il software, dice, non c’è alcun controllo democratico sulla tecnologia. “We need to demand freedom in our software. Otherwise, we’re just subjects under digital emperors.”

A un certo punto qualcuno gli chiede: “Ma questi strumenti non possono essere utili per scrivere o programmare?”. La risposta è lucida: sì, possono aiutare, ma è pericoloso delegare troppo. E poi aggiunge che le tecnologie devono servire le persone, non dominarle. Se il loro uso implica perdita di controllo, sorveglianza, dipendenza o opacità, allora non ne vale la pena. Non è contrario alla tecnologia in sé, ma al modo in cui viene imposta, chiusa, sfruttata.

Ci tiene a dire che non c’è nulla di male nel generare testi o nel fare previsioni con le reti neurali, purché non si faccia passare il messaggio che “pensano”. È un uso errato del linguaggio, ma anche un’operazione di marketing tossico: serve a vendere, a creare hype, a giustificare decisioni aziendali e politiche molto discutibili. E quando la tecnologia viene mistificata, si scivola verso un mondo dove non si capisce più chi decide cosa, e perché.

Alla fine del video, quando gli viene chiesto cosa possiamo fare, risponde come ha sempre fatto: rifiutare il software non libero, rivendicare la libertà digitale, informarsi, non lasciarsi sedurre dalle scorciatoie comode ma pericolose. È difficile, certo. Anche lui lo sa. Non è uno che vive fuori dal mondo, ma uno che ha deciso di non accettare certi compromessi.

Io, da parte mia, sono d’accordo con lui su praticamente tutto. E lo sono da anni. Non sempre riesco a seguirlo fino in fondo — uso strumenti proprietari, ogni tanto chiudo un occhio per esigenze pratiche — ma continuo a stimarlo profondamente. Perché dice cose vere. Perché continua a difendere principi scomodi, ma fondamentali. Perché ha il coraggio di restare coerente, anche quando intorno tutti vanno nella direzione opposta.

E soprattutto, perché nonostante il tempo che passa, Stallman è ancora perfettamente attuale. Non è un nostalgico, non è un guru fuori tempo massimo. È una voce limpida, coerente, indipendente. E in un mondo dove tutti sembrano correre dietro alla prossima buzzword, alla prossima feature, al prossimo aggiornamento, la sua presenza è una forma di resistenza preziosa.

Se c’è una cosa che mi porto dietro da questo video, è proprio questa: la consapevolezza che dietro ogni progresso tecnologico ci dev’essere un’etica della libertà. E che questa etica va difesa ogni giorno, un pezzo di codice alla volta, una scelta alla volta.

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