È il primo sabato di luglio caldo, quello che sfianca. Non so cosa facciano gli altri sotto il condizionatore, ma io leggo. E mi ritrovo con due articoli su The Hacker News che sanno tanto di deja-vu quanto di tragedia annunciata: da un lato, l’intelligence taiwanese che lancia un allarme pubblico su minacce informatiche in aumento e furti di dati ormai diventati cronaca ordinaria; dall’altro, l’eterno problema delle interfacce JDWP esposte che tornano protagoniste, ancora una volta, ancora nel 2025.
Nel primo caso, il National Security Bureau di Taiwan segnala che la Cina sta raffinando l’arte della persuasione digitale, sfruttando fughe di dati da aziende locali per costruire profili comportamentali e orchestrare campagne di influenza. Non è solo spionaggio: è guerra fredda connessa, distribuita, e sempre più invisibile. La parte che brucia? Non è tanto la notizia in sé, ma il fatto che il pubblico venga avvisato solo ora, quando probabilmente la rete è già tutta compromessa. E non è solo Taiwan: è uno specchio su tutti noi.
Poi c’è la vulnerabilità JDWP, esposta su Internet come se fossimo ancora nel 2010. Il debug Java lasciato accessibile su migliaia di server — production systems, mica macchine di test — e attaccanti che possono eseguire codice arbitrario da remoto. Basta uno script. Una scansione. Un sabato come questo. Sono problemi “facili”, cose da checklist base, ma chi dovrebbe proteggere evidentemente ha altro da fare. Oppure non lo sa, ed è questo il vero pericolo.
Due storie separate, un solo tema comune: l’inerzia. La sicurezza che si trascina come un ventilatore rotto in una stanza da 40 gradi. Il problema non è solo la sofisticazione degli attacchi, ma quanto siamo lenti, quanto siamo prevedibili. E anche quanto poco impariamo.
Oggi è sabato, ma i sistemi restano accesi. I JDWP restano esposti. E c’è chi raccoglie ogni dato lasciato galleggiare nel caldo dell’Internet. Perché il caldo ci rallenta, ma loro no.
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