Passa ai contenuti principali

Il nuovo volto degli attacchi DDoS: brevi, brutali, ovunque

Non è la prima volta che mi trovo a parlare di attacchi DDoS mostruosi, ma i numeri della seconda metà del 2025 segnano un salto qualitativo drammatico: abbiamo sfondato il muro dei 7 terabit al secondo. Cloudflare ha annunciato di aver mitigato un attacco DDoS “iper‑volumetrico” che ha toccato il picco di 7,3 Tbps e 4,8 miliardi di pacchetti al secondo, concentrati in appena 45 secondi.

È incredibile pensare che in meno di un minuto siano stati riversati 37,4 terabyte di traffico verso un singolo IP bersaglio — un volume pari a più di 9.300 film HD. E se questo attacco fa notizia, ciò che davvero mi inquieta è il contesto in cui avviene: nei primi sei mesi del 2025 Cloudflare ha già bloccato 27,8 milioni di attacchi DDoS, superando di gran lunga ogni statistica del 2024 .

Cosa significa tutto ciò per chi come me lavora nel settore? Significa che la minaccia non si limita più a interruzioni occasionali: stiamo parlando di attacchi brevi ma potentissimi, sempre più frequenti e sofisticati. Cloudflare ha identificato oltre 6.500 attacchi iper‑volumetrici in Q2, con una media di 71 quotidiani. Ma non è solo questione di quantità: è la strategia che cambia. Loro stessi definiscono i nuovi pattern come combinazioni intelligenti di super‑flooding massicci con sondaggi mirati, progettati per sondare falle e aggirare difese tradizionali . Non attaccano più soltanto a forza bruta, ma con tattiche ibride e coordinate.

Un altro dato allarmante: gli attacchi L3/4 (come DNS‑flood, TCP‑SYN, UDP) sono diminuiti dell’81% rispetto al trimestre precedente, ma contestualmente quelli HTTP sono cresciuti del 9%, con oltre il 70% generati da botnet già note. In pratica: stiamo assistendo a una diversificazione degli strumenti e degli obiettivi. Le telecomunicazioni, i provider Internet e i data center sono tra i più bersagliati, e a fascino dei criminali si aggiunge il ritorno dei ransomware DDoS con un aumento del 68% delle minacce estorsive .

Aggiungiamoci poi l’emergere di botnet sofisticate come DemonBot — basate su dispositivi IoT Linux insicuri — e di throne vettori quali UDP flood, riflessioni QOTD, NTP o mischi multi‑protocollo. È il ritorno della scuola old‑school, ma in chiave 2025: vettori storici usati in combinazione per confondere l’intelligence delle difese.

Chiunque gestisca infrastrutture cloud‑based, siti web o contenuti online non può più fare affidamento a soluzioni reactive o a protezioni occasionali. Gli attacchi durano meno di un minuto, ma il danno può essere permanente se il sistema non è pronto. Serve una difesa always‑on, automatica, distribuita su scala globale — esattamente come quelle offerte da Cloudflare con oltre 388 Tbps di capacità e oltre 330 città coinvolte.

Dunque, guardando avanti, penso che siano due le lezioni da portarsi a casa:


Investire in soluzioni di protezione DDoS always-on e autonome, capaci di reagire non appena il traffico inizia ad aumentare.

Monitorare costantemente l’infrastruttura, raccogliere dati sui tentativi di attacco e adottare threat‑feed per anticipare le tecniche emergenti.

Il panorama è in rapido cambiamento: non si tratta più di «proteggere il sito» ma di difendere realtà distribuite, interconnesse, dove basta un attimo per generare un blackout digitale.

Commenti

Popolari

IPv6, come siamo passati dai camuffamenti (tunnel broker) su IRCNet alle sfide di sicurezza di oggi

All’inizio degli anni 2000, prima che l’IPv6 fosse una realtà comune, per connettersi alla nuova rete servivano i tunnel broker: nodi messi in piedi da appassionati o provider che permettevano di avere un indirizzo IPv6 incapsulato dentro IPv4. In Italia c’erano nomi che oggi sembrano quasi leggendari: NGnet, Zibibbo, e poi, su scala più internazionale, SixXS, che per anni ha fornito tunnel di altissima qualità fino a dichiarare “mission accomplished” e chiudere nel 2017. Erano anni in cui IPv6 era roba da smanettoni, e la comunità IRCNet italiana era uno dei posti dove questo “potere” trovava applicazioni creative. Personalmente lo usavo per camuffare il mio IPv4: mentre con un indirizzo 95.x.x.x il server IRC mostrava il reverse DNS dell’ISP, con IPv6 potevo scegliere il mio indirizzo nel blocco assegnato, evitando di esporre il mio IP reale e cambiandolo a piacere. In quel periodo circolavano anche strumenti curiosi, come ipv6fuck.c dell’autore “schizoid”, un codice C che serviva pe...

WinRAR sotto attacco, zero-day critica sfruttata da hacker russi

Il 10 agosto 2025 è stata resa pubblica la vulnerabilità CVE-2025-8088 di WinRAR, una falla di tipo directory traversal già sfruttata in attacchi mirati da RomCom, gruppo hacker legato alla Russia e noto per operazioni di cyber-spionaggio ed estorsione. Il problema risiede nella gestione dei percorsi all’interno di archivi compressi: un file RAR malevolo può includere riferimenti a directory specifiche del sistema, forzando WinRAR a estrarre file in percorsi diversi da quelli scelti dall’utente. In particolare, è possibile copiare eseguibili nelle cartelle di avvio automatico di Windows, come %APPDATA%\Microsoft\Windows\Start Menu\Programs\Startup o %ProgramData%\Microsoft\Windows\Start Menu\Programs\StartUp. Alla successiva accensione del PC, il malware viene avviato in automatico, ottenendo così persistenza sul sistema e potenzialmente consentendo il controllo remoto. Gli attacchi osservati sono stati condotti tramite campagne di spear-phishing: le vittime ricevevano email contenenti...

Nuovo attacco agli ambienti ibridi Microsoft, l’allarme lanciato a Black Hat. Active Directory ed Entra ID sotto esame, la tecnica che sfida MFA e controlli tradizionali

A Black Hat USA 2025 è stata mostrata una lezione dura ma utile per chiunque gestisca identità e mail aziendali: un ricercatore ha dimostrato come, in certi ambienti ibridi che sincronizzano Active Directory locale con Microsoft Entra ID (ex Azure AD), un account cloud apparentemente a bassa priorità possa essere trasformato in un account “ibrido” con privilegi amministrativi, senza passare dalle normali barriere di autenticazione e senza far scattare gli allarmi tradizionali. La dimostrazione — presentata da Dirk-jan Mollema di Outsider Security — ha messo in luce vettori di abuso legati al server di sincronizzazione (Entra Connect), alle modalità di corrispondenza degli account tra on-prem e cloud (soft matching) e a token/claim usati nei meccanismi di delega e in Exchange ibrido. Per chi non mastica quotidianamente questi termini: molte aziende hanno ancora un Active Directory “dentro l’azienda” per utenti e servizi, e allo stesso tempo usano servizi cloud come Microsoft 365. Per fa...