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Quando tre anni non bastano, riflessioni su chi tradisce il segreto di Stato

Quando ho letto la notizia della condanna a 37 mesi di carcere per un ex analista della CIA, tratto in giudizio per aver trasmesso a un giornalista informazioni classificate riguardanti piani militari israeliani, la prima reazione è stata una stretta allo stomaco. Non solo per il contenuto della vicenda, ma per la pena: appena tre anni e un mese. Poco più di mille giorni per aver violato un dovere che dovrebbe essere sacro, soprattutto per chi lavora in ambito intelligence o in posizioni sensibili per la sicurezza nazionale. In un mondo dove i dati sono potere e il potere può significare vita o morte, mi sembra francamente troppo poco.

L’uomo, secondo le fonti giudiziarie statunitensi, ha passato a un giornalista dettagli altamente classificati, legati a potenziali operazioni militari. Informazioni coperte dal livello “Top Secret”, quello che negli Stati Uniti indica dati la cui diffusione non autorizzata può provocare “grave danno alla sicurezza nazionale”. Il massimo livello. Eppure, di fronte a una delle peggiori violazioni immaginabili — il tradimento del patto fiduciario con lo Stato, con colleghi e con i cittadini stessi — ci si ferma a una pena che, nel tempo di un ciclo olimpico, sarà già archiviata.

In Italia, forse non molti sanno che anche noi abbiamo un sistema di classificazione degli atti e dei documenti sensibili. I livelli sono quattro: riservato, riservatissimo, segreto e segretissimo. Quest’ultimo, il più alto, viene attribuito a informazioni la cui divulgazione può compromettere in modo molto grave l’indipendenza dello Stato, la sua integrità territoriale o le sue alleanze strategiche. È l’equivalente del "Top Secret" statunitense o del “Top Secret – Cosmic” in ambito NATO. In Europa e nel Regno Unito, la nomenclatura cambia leggermente, ma la sostanza è simile: esistono livelli crescenti di protezione, e ogni accesso o diffusione indebita è considerata una minaccia potenziale alla sicurezza collettiva.

Il problema, però, non è solo giuridico: è culturale. La gravità di un gesto come quello commesso dall’ex analista della CIA va oltre la sua dimensione penale. È un atto che mette in pericolo vite, relazioni diplomatiche, equilibri fragili costruiti con anni di lavoro. E questo vale tanto negli Stati Uniti quanto in Italia, in Israele o ovunque esista un sistema di difesa e intelligence. Non si tratta di censurare la stampa o impedire l'inchiesta: si tratta di proteggere ciò che va protetto, anche da chi — per motivi politici, ideologici o personali — decide di mettersi al di sopra delle regole.

Personalmente, credo che pene più severe siano non solo auspicabili, ma necessarie. Non per spirito punitivo, ma per ristabilire una scala di valori: chi tradisce il proprio Paese dall’interno deve sapere che non ci sarà alcuno sconto morale, sociale o giudiziario. Anche nel cyberspazio, dove tutto sembra più impalpabile, queste dinamiche sono reali. I documenti classificati restano una delle chiavi più critiche della sovranità e della sicurezza. Proteggerli è un dovere che non può essere ridotto a una formalità di legge. Tre anni non bastano. Serve un segnale. Serve ricordare che, se la fiducia è tutto, il tradimento non può costare così poco.

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