Negli ultimi giorni, diversi media hanno rilanciato titoli allarmanti riguardo un presunto "colossale data breach" contenente 16 miliardi di credenziali. A prima vista sembra un evento senza precedenti, ma scavando sotto la superficie ci si accorge che si tratta dell’ennesimo esempio di disinformazione amplificata, forse con lo scopo di creare panico e vendere soluzioni di sicurezza a suon di FUD (Fear, Uncertainty and Doubt).
Il cosiddetto “Mother of all Breaches” (MOAB) altro non è che un aggregato di dati provenienti da centinaia di vecchie violazioni, alcune delle quali risalenti anche a più di un decennio fa. In pratica, nulla di nuovo sotto il sole. La maggior parte di queste credenziali erano già pubblicamente disponibili su forum, database e marketplace nel dark web. Nessuna evidenza concreta è emersa che indichi una nuova violazione di piattaforme attualmente attive.
Quello che colpisce è il modo in cui molti articoli abbiano riportato la notizia senza verificarne la sostanza tecnica. Invece di analizzare con spirito critico, si è scelto di cavalcare il sensazionalismo. Ma nella community infosec non è passato inosservato: diversi ricercatori hanno smontato in poche ore la narrativa proposta, sottolineando che si tratta perlopiù di una ricompilazione di leak già noti.
Questa situazione porta a due riflessioni. La prima è che la consapevolezza pubblica sulla sicurezza informatica è ancora fortemente influenzabile da narrazioni esagerate. La seconda è che serve maggiore responsabilità anche nel modo in cui le aziende del settore comunicano questi eventi: diffondere notizie gonfiate mina la fiducia degli utenti e rende più difficile distinguere le vere emergenze dalle trovate pubblicitarie.
Non si nega che il problema della sicurezza delle credenziali sia reale, ma non è gonfiando i numeri che si aiuta l’utente. La soluzione passa dalla cultura, dalla formazione, da password manager, MFA e buone pratiche quotidiane — non dal sensazionalismo.
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