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Anker. Quando il power bank prende (troppa) carica

Ieri ho ricevuto da Amazon una mail che non mi aspettavo, con oggetto: “un messaggio importante riguardante il tuo ordine”, e già questo fa pensare a problemi. Si trattava infatti di un avviso ufficiale legato a un richiamo per rischio incendio di un prodotto che ho acquistato ad aprile: un power bank Anker da 20000mAh con ricarica rapida a 30W, doppia porta USB-C e USB-A, e persino un cavo USB-C integrato, il che lo rendeva ideale per chi, come me, è sempre in viaggio e vuole portare il minimo indispensabile senza rinunciare a prestazioni elevate. L’ho scelto proprio per queste caratteristiche, e me lo sono portato dietro anche nel mio recente viaggio in Giappone: ha caricato tutto e tutti, senza mai dare problemi, ma oggi so che avrebbe potuto andare diversamente. Non si tratta infatti di un semplice difetto cosmetico o di performance scarse: il richiamo è legato a un rischio concreto di surriscaldamento e incendio del dispositivo. E non lo dico io, lo dice direttamente il produttore, che ha pubblicato una comunicazione ufficiale sul sito (https://www.anker.com/eu-en/rc2506) in cui invita gli utenti a smettere immediatamente di utilizzare il power bank interessato. Nella pagina si può richiedere un prodotto sostitutivo oppure un buono regalo, anche se nel mio caso avendo acquistato su Amazon e non direttamente da Anker, la procedura passa da una verifica dell’ordine e un modulo da compilare. Fortunatamente, nonostante l’uso intensivo in contesti anche estremi (bagagli pressati, alte temperature, cicli completi di carica e scarica), non ho avuto alcun problema evidente.

Quando si parla di dispositivi alimentati a batteria, in particolare di power bank ad alta capacità, stiamo maneggiando a tutti gli effetti una fonte di energia chimica potenzialmente instabile, e il confine tra un prodotto affidabile e un rischio per la sicurezza è più sottile di quanto sembri. Le batterie agli ioni di litio sono efficienti, leggere e potenti, ma anche soggette a fenomeni ben noti come il thermal runaway, un effetto domino che può partire da un semplice punto caldo o da un malfunzionamento del circuito di controllo e finire con l’autocombustione del dispositivo. Il fatto che Anker abbia preferito non entrare nei dettagli tecnici della causa del richiamo è comprensibile dal punto di vista comunicativo e legale, ma lascia spazio ad alcune ipotesi tecniche che vale la pena considerare. Potrebbe trattarsi di un difetto nella produzione delle celle, come la formazione di dendriti metallici che a lungo andare causano corti interni, oppure di un problema nel BMS (Battery Management System), che è il cuore elettronico che gestisce ogni fase di carica, scarica, protezione da sovratensione, surriscaldamento e bilanciamento delle celle. Se il BMS non interviene quando dovrebbe – ad esempio in caso di carico elevato o corto circuito – l’energia accumulata nella batteria può diventare un pericolo reale.

Un’altra ipotesi interessante riguarda la gestione della ricarica rapida, in particolare con i protocolli USB-PD (Power Delivery) e simili, che prevedono una negoziazione tra il dispositivo e il caricatore per stabilire a quale voltaggio lavorare. Se questa negoziazione fallisce o viene male implementata, potrebbe esserci un errato passaggio di corrente, causando danni sia al power bank che al dispositivo collegato. Non va esclusa nemmeno una causa legata alla costruzione del dispositivo: se alcune partite sono state prodotte con componenti di bassa qualità, saldature difettose, isolamento termico insufficiente o PCB economici, l’uso continuato e lo stress termico potrebbero portare a corti o addirittura alla combustione. È un problema che, sebbene non riguardi la cybersecurity in senso stretto, ha tutto il diritto di entrare nelle riflessioni di chi si occupa di sicurezza informatica. Ogni dispositivo che portiamo con noi – laptop, power bank, smartphone – è parte integrante del nostro perimetro digitale, ma anche di quello fisico, e un’interruzione di servizio causata da un problema elettrico non è meno grave di una causata da un malware. Inoltre, nel caso di dispositivi smart o aggiornabili (non questo, ma alcuni modelli simili sì), esiste anche il rischio teorico che un attaccante possa sfruttare firmware vulnerabili per compromettere il controller interno, trasformando un oggetto in apparenza innocuo in un vettore d’attacco. Anche se in questo caso non si parla di exploit o di hacking, il confine tra guasto fisico e minaccia digitale è sempre più labile, soprattutto quando si tratta di dispositivi che gestiscono energia e dati contemporaneamente.

Quello che mi colpisce di più, però, è il fatto che io questo dispositivo lo stavo usando ancora fino a pochi giorni fa, con fiducia, e che il richiamo sia arrivato a mesi dall’acquisto. Questo dovrebbe farci riflettere anche su come tracciamo i nostri acquisti, su quanto controlliamo periodicamente le comunicazioni dai produttori, e su quanto siamo abituati a sottovalutare certi oggetti solo perché funzionano e non sembrano “intelligenti” o collegati a internet. In un mondo dove la tecnologia è sempre più invisibile e integrata nella nostra quotidianità, la sicurezza passa anche da gesti semplici come leggere una mail di Amazon, prendere sul serio un avviso, e restituire un oggetto che – fino a ieri – sembrava perfetto.

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