Essere calabrese, significa anche avere a cuore una battaglia che per altri è solo una notizia di cronaca: la lotta contro le mafie, contro i sistemi criminali che ancora oggi soffocano la nostra terra. Ecco perché la recente sentenza della Cassazione sulle intercettazioni digitali mi tocca in modo personale.
La sentenza
Il 16 maggio 2025, la Corte di Cassazione ha stabilito che la difesa ha diritto ad accedere ai file di log generati dai trojan usati nelle intercettazioni. In pratica, questi file indicano quando, dove e come è stato attivato il captatore informatico (trojan).
La logica è chiara: se lo Stato usa strumenti così invasivi, è giusto che ci sia trasparenza e controllo legale. Ma da informatico e cittadino di questa terra martoriata, non posso non vedere il rischio serio che si sta aprendo.
Ma chi protegge chi lavora nell’ombra?
Dietro ogni trojan c'è un lavoro tecnico complesso. C'è un informatico forense, c'è un agente, a volte un infiltrato, spesso un giudice che ha autorizzato tutto nel rispetto della legge. Mostrare a tutti quando e come il captatore è entrato in funzione può significare svelare una rete intera: persone, momenti, metodi.
Cosa succede se da un log si risale a un luogo specifico? Se si capisce che proprio in quel momento si stava ascoltando un incontro mafioso? Chi protegge quegli uomini e donne che lavorano nell'ombra per salvare lo Stato?
Il rischio concreto
Da calabrese conosco il peso dei processi come Rinascita-Scott, Maestrale-Carthago, Petrolmafie. Processi costruiti su mesi di lavoro tecnico, intercettazioni complesse, analisi digitale meticolosa. Se bastasse l’assenza di un log (o la sua incompletezza) per far cadere una prova, rischiamo di mandare a monte anni di indagini.
E se per garantire il diritto alla difesa sveliamo troppo, chi pagherà il prezzo? Gli informatici che hanno messo le mani nel codice? Gli agenti che hanno seguito un'indagine con pazienza certosina? O peggio, la collettività, se un boss torna a casa perché manca una riga di log?
Serve un equilibrio nuovo
Non dico che non ci debba essere controllo: deve esserci, eccome. Ma serve un modello protetto. I log vanno depositati con cautele, magari solo visionabili in Procura, oscurando informazioni sensibili, o usando tecnici terzi nominati dai giudici.
Difendere i diritti non deve voler dire smontare lo Stato pezzo per pezzo. Serve una giustizia trasparente, ma anche consapevole del contesto in cui opera. E soprattutto, serve rispetto per chi combatte ogni giorno questa battaglia — in divisa, dietro una tastiera, o in silenzio.
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